Esplorata la voragine dello

Esplorata la voragine dello " Zemblen"

Asiago, 16 novembre 1948

Nel mondo degli gnomi a 65 metri di profondità

Se tutti i "battesimi" offrono sensazioni simili a quelle che abbiamo provato noi nella esplorazione della voragine dello "Zemblen", che si trova nelle immediate vicinanze della caserma del M. Interrotto a quota 1385, diciamo subito che sono riti molto emozionanti.

Per una profondità di quasi 65 metri ci siamo calati con altri cinque grottaioli del Gruppo Grotte del Club Culturale-Artistico, nel regno dei gnomi e per molte ore ci siamo indugiati laggiù a cercare salme di vittime della guerra e a fare rilievi scientifici da inviare alla Sezione Speleologica del Touring Club Italiano.

Avevamo con noi, oltre a tutti gli attrezzi di sicurezza, anche un barometro e un termometro e, per comunicare con l'esterno, un telefono e una macchina fotografica, per le riprese più interessanti delle pareti e dei fenomeni naturali.

L'inghiottitoio, dalla forma ellittica, si presentava di dimensioni ridotte (metri 13x11) e la parte visibile era tutta ad anfratti.

Il primo a scendere per la scala a corda era l'ing. Rigoni che raggiunse il fondo del pozzo d'ingresso a quota -30 alle ore 9.45 di domenica seguito dal sottoscritto. Costituimmo così il nucleo di punta e ci mettemmo all'opera per provvedere subito alla installazione dell'impianto telefonico di collegamento con l'alto, sullo spalto della prima cengia piena di detriti.

Gli altri di sopra erano impazienti di scendere, specie per la curiosità destata dalle osservazioni del primo pozzo che ogni tanto trasmettevamo loro mettendo in rilievo i maggiori fenomeni delle pareti. Dentro quella bocca nera coperta di muschio e decorata di nicchie laterali che sembravano occhiaie minacciose, noi due, uniche cose mobili con i sassi che ogni tanto si staccavano dalle pareti percuotendo spesso il nostro elmetto, dicevamo agli amici le nostre prime impressioni che erano di sorpresa e di ammirazione insieme.

La natura che aveva sagomato tutte quelle nicchie e le acque avevano corroso, con paziente lavoro, il cilindro del pozzo d'ingresso rendendolo liscio, e prodotto quegli sprofondamenti che continuavano sotto di noi, ci davano la vera misura della nostra meschina potenza di uomini. Cosa sarebbe stato di noi se l'inghiottitoio avesse deciso di chiudersi in un istante? Ma noi allora non pensavamo a queste cose e decidemmo, anzi, di scendere nel secondo pozzo, profondo 21 metri, con tutto il materiale. Sistemammo l'impianto telefonico, che recammo laggiù con una corda, lungo una nicchia della parete ovest e riprendemmo contatto con l'esterno.

Ora le voci degli amici ci sembravano più care e pareva recassero anche quella luce che laggiù, a oltre 50 metri, ci mancava. Solo il rumore di uno stillicidio ci teneva compagnia, mentre i grossi goccioloni ci bagnavano e ci procuravano u po' di freddo nonostante la temperatura fosse di +4 gradi centigradi. Erano le 10.45 e noi, sotto, già dirigevamo la manovra per la discesa degli altri compagni.

Il fondo del secondo pozzo venne così raggiunto dal secondo nucleo, composto da: Brazzale, fotografo, geometra Guglielmi, prof. Stefani, Romualdo Rigoni, entro le ore 11.30 dopo una calata faticosa che si sviluppava per una buona parte nel vuoto più impressionante. La scala che ogni tanto si attorcigliava, per gli squilibri del corpo, costretto in scomode posizioni, ci mozzava il respiro, ma non solo a noi che facevamo da spettatori. Al lume di candela tentammo poscia di leggere la pressione, ma ci accorgemmo che il barometro non dava sufficiente garanzia di precisione.

C mettemmo a trasmettere all'esterno, allora, i dati della pianta del pozzo di forma ogivale e le misure dell'asse principale (m. 18) e di quello trasversale (m. 3), rilevando pure che certi punti lungo le pareti presentavano dei depositi viscidi di fango di colore ambra chiarissimo. Notate anche formazioni calcaree di tipo stalattitico e nella parete nord una spaccatura imbutiforme che costituisce il tetto del pozzo e due cunicoli, il più basso dei quali immette in un terzo inghiottitoio. Ma fu nella scarpata del secondo pozzo che commisti e semicoperti da materiale detritico, notammo, a qualche metro di distanza l'uno dall'altro, i resti di due corpi umani in stato di quasi completa putrefazione.

Li osservammo bene, quei mucchietti di ossa maleodoranti, e ci vennero alla mente tanti pensieri. Ma non li meditammo, perché non volevamo perdere tempo. Li avremmo riservati per dopo, quando la vita fuori avrebbe pulsato attorno a noi e tutto non sarebbe stato così tetro. Sopra i mucchietti di ossa, intanto viveva una coltura di funghi, individuati nella famiglia saprofita, e precisamente l'"Agaricus Myurus", le cui ife avevano evidentemente trovato opportuno ambiente di sviluppo nella materia organica di decomposizione.

Non raccogliemmo le ossa e lasciammo i funghi a vegliarli sino a che le Autorità penseranno a dar loro sepoltura. L'ing. Rigoni con Romualdo Rigoni avevano deciso intanto di infilare il cunicolo del terzo pozzo con un tratto di scala staccato dal ramo più lungo la cui maggior tensione non bastava per toccare il fondo della terza voragine, profonda oltre dieci metri, e il cui tetto non era possibile individuare, perché a 12 metri dal fondo era solo visibile un falso tetto costituito da enormi massi detritici incastrati fra loro e le pareti dando l'impressione, per la loro disordinata disposizione, di aver raggiunto una forma di equilibrio facilmente passibile di alterazione.

In questo pozzo tutte le pareti presentavano caratteristiche di stillicidio e le stratificazioni tendevano alla verticalità. Numerosi addobbi di concrezioni del tipo stalattitico e stalagmitico caratterizzavano la caverna che non finisce lì, ma che trova sfiato in un altro pozzo più basso di quasi 3 metri tramite un piccolo pertugio che si apre in una parete ricoperta di fango di colore ambra con caratteristiche caoliniche.

Tale pozzo ha un tetto verticale aghiforme alto circa sei metri. Qui la voragine sembrava finisse ed è perciò che iniziammo le operazioni per far salire i due esploratori. Arrivati che furono al secondo pozzo dovemmo concedere al fotografo un po' di tempo per il suo lavoro tra le proteste di Mario Rigoni, Andrea Corà, che, assieme alla signora dell'ingegnere, ottima telefonista, espletavano il lavoro di sicurezza dall'alto e le manovre di calata e di salita, iniziata verso le 15,30.

Gli amici di sopra volevano scendere, ma ormai era tardi. L'impresa che ci costò parecchia fatica terminava non senza qualche apprensione per il magnesio di Brazzale che a un dato momento nella salita sbatté contro una parete con pericolo di scoppio. Ma la voragine non ci trattò male, domenica, anzi ci accolse con mansuetudine pur sapendo che eravamo lì per frugarla e forse per rapirle qualche segreto a lei molto caro.

Ennio Tessari